Percorso

"Banditi a Orgosolo" e i Cahiers du cinema

«Le Bandit d’Orgosolo fut la seule révelation de ce festival»... Eccolo il giudizio che i redattori della celebre rivista pubblicarono in occasione della presentazione del film alla 22ma Mostra di Venezia. Dedicato ad appassionati cinefili. di Carlo Rafele

Cahiers du cinemaCome reagì la più importante, severa, selettiva, “aristocratica” officina critica di quegli anni - i “Cahiers du cinéma” - alla proiezione di “Banditi a Orgosolo” (nella versione francese “Le Bandit d’Orgosolo”)?  Disponiamo ed esaminiamo con cura immagini e avvenimenti dell’anno 1961: anno cruciale, anno nascente, per le sorti del cinema italiano.

Sono all’opera i “maggiori”: Rossellini firma “Vanina Vanini”, Antonioni “La notte”; gli autori emergenti si chiamano Pasolini (“Accattone), Olmi (“Il posto”), De Seta (“Banditi a Orgosolo”). Questi ultimi due autori, insieme a Rossellini, entrano in competizione per la 22ma Mostra Internazionale del Cinema, in programma a Venezia dal 20 agosto al 3 settembre. Dovranno vedersela con Alain Resnais (“L’année dernière à Marienbad”), Akira Kurosawa (“Yojimbo”), Claude Autant-Lara (“Tu ne tueras point”), Aleksandr Alov e Valdimir Naumov (“Pace a chi entra”), Andrzej Waida (“Samson”), Renato Castellani (“Il brigante”).  Sette i componenti la Giuria Internazionale: tre italiani (Filippo Sacchi – presidente - Giulio Cesare Castello, Gian Gaspare Napolitano), un francese (Jean de Baroncelli), un americano (John Hubley), un russo Lev Arnshtam, un argentino (Leopoldo Torre Nilsson). 

Vittorio De SetaSenza troppe discussioni, i giurati incoronano all’unanimità il film di Resnais, che vince il Leone d’oro; gli altri premi sono adeguatamente distribuiti: per Kurosawa, la Coppa Volpi a Toshiro Mifune, migliore attore protagonista; per Autant-Lara, la Coppa Volpi a Susanne Flon, migliore attrice protagonista; il Premio speciale della critica ad Ermanno Olmi e la Coppa Volpi per la migliore “Opera prima” a Vittorio De Seta per “Banditi a Orgosolo”. 
 
Spostiamoci nella redazione dei “Cahiers”, in quegli stessi giorni. È in stampa il numero 123, datato settembre ‘61. Non avendo potuto fare diretto riferimento alla Mostra ancora in corso, i due redacteurs en chef – Doniol-Valcroze e Erich Rohmer – giocano in proprio la “carta” Resnais, dedicando metà delle pagine - 31 su 62 - a “Marienbad” e lanciando in copertina una foto-immagine della “misteriosa” Delphine Seyrig, irresistibile icona di candore e sovranità femminile, accanto al giovane e “statuario” Giorgio Albertazzi.  Fedeli, poi, all’esigenza di farsi paladini del cinema che verrà, i “Cahiers” pianificano una memorabile “Conversazione” con la nuova coppia-rivelazione del cinema francese: Alain Resnais e Alain Robbe-Grillet, quest’ultimo in veste di sceneggiatore, otto anni dopo l’esordio-rivelazione con il romanzo “Le gomme”.
 
Alain ResnaisSono così imbastiti i migliori presupposti per tentare l’offensiva finale nel numero successivo, il 124, in uscita per ottobre ’61. I cinefili, sia italiani che francesi, attendono di conoscere il giudizio che i “giovani turchi” dei “Cahiers” esprimeranno sui film presentati al concorso. Ma i redacteurs en chef spiazzano ancora una volta i lettori, apparecchiando un numero completamente separato dalle aspettative.  Già la copertina non allude ad alcun titolo “veneziano”: c’è un Belmondo vestito da prete, accanto a Emmanuelle Riva (già attrice di Resnais, nel ’58) in un film di Jean-Pierre Melville. Segue, da pagina 1 a pagina 22, una lunga conversazione-intervista con Melville, condotta da Claude Beylie e Bertrand Tavernier.  Anche il servizio che segue, da pagina 23 a pagina 35, non riguarda il festival veneziano, bensì gli “Scritti” di Carl Th. Dreyer, apparsi in Danimarca per il suo 70° compleanno. Segue, poi, la consueta rubrica “Souvenirs”, curata da Max Ophuls - da pagina 36 a pagina 41- infine, finalmente, ecco spuntare il titolo atteso: “Venise 1961”, con un fotogramma del film di Wajda, “Samson”.
Ci siamo, dunque… cominciamo a sfogliare. Le pagine non sono poi molte, da 42 a 48: si tratta di due “corrispondenze” firmate da due “inviati” che i lettori-fanatici dei “Cahiers” avranno modo di ammirare nei decenni successivi, per la fedele militanza prestata alla causa del cinema d’autore: André Labarthe e Jean Douchet. È quest’ultimo che passa in rassegna, in primis, i titoli più rilevanti della Manifestazione, a partire da “Marienbad”, per concludere sul “Brigante” (“Le Bandit”) di Castellani.
 
''Banditi a Orgosolo''Già questa scorretta assonanza linguistica – “Le Bandit d’Orgosolo” e “Le Bandit” (ciò che in italiano è “Banditi a Orgosolo” e “Il brigante”) – consente a Douchet di mettere i titoli uno di seguito all’altro, per meglio rimarcare le differenze. Che restano a esclusivo vantaggio dell’opera di De Seta: il film raccoglie piena “visibilità”, anche in virtù della foto centrale che intervalla gli articoli, una foto-inquadratura che trattiene compiutamente gli elementi-chiave: dolore, pathos, natura. Ebbene: cosa dice Douchet, a proposito di “Banditi a Orgosolo”?  «Le Bandit d’Orgosolo fut la seule révelation de ce festival…». “Banditi a Orgosolo” fu la sola, vera rivelazione di questo Festival, ciò che del resto la Giuria ha confermato, incoronando il film con il Premio Opera prima. È un grande modello di documentario, proprio nel senso in cui lo intendeva Flaherty. Il merito di Vittorio De Seta, tuttavia, sta nell’aver operato scelte stilistiche che muovono verso l’assoluta originalità. Piuttosto che muovere da un’idea preconcetta del mondo, De Seta si mantiene sul versante del più convincente realismo. È il primo, dopo Rossellini, ad aver fatto sincera professione di fede neorealista. Però, a differenza di Rossellini, che si preoccupa anche di non trascurare morale e politica, De Seta è soprattutto rivolto agli “effetti”, affidando allo spettatore la possibilità di scoprire le cause, per deduzione logica. Un cammino inverso rispetto all’autore di “Paisà”».
 
Jean DouchetE ancora: «Niente nel suo film si offre come piacevole spettacolo, da contemplare. Né l’ eroe né le pecore né i paesaggi, sono destinati a piacere. La grandezza originale discende anche dall’illuminazione particolare, dalla semplicità e la bellezza della fotografia. Dietro un’apparenza “virgiliana”, De Seta ci esorta a condannare quest’ordine di cose, che consente l’abiezione e la degradazione dell’ordine naturale».
Come si vede, parole chiare, sentenza netta. Che rifulge con maggiore enfasi se si leggono le righe seguenti, dedicate al “Bandit-Brigante” di Renato Castellani. Douchet è lapidario:
«Le qualità di “Banditi a Orgosolo” fanno a pezzi le ambizioni dell’altro “Bandit”. Il film di Castellani, di una lunghezza esasperante, più di tre ore, tenderebbe a dirci la medesima cosa dell’opera di De Seta. Pieno di suggestioni formali, a volte in eccesso, fin troppo compiacente verso il pathos drammatico, questo film utilizza il neorealismo in funzione commerciale. La nobile ambizione del progetto cede infine a troppi compromessi. (…) Questo film che si vorrebbe di sinistra, si farà certamente stroncare dai marxisti puri (…) “Il Brigante” è uno scacco, che mostra chiaramente i limiti di Castellani».  Liquidato “Il Brigante”, Douchet mette sotto esame la terza opera italiana del Festival. Anche qui una stroncatura, ma con guanti di velluto, trattandosi dell’autore che i “Cahiers” – prima di tutti - hanno amato e incoronato: Rossellini.  
 
Roberto Rossellini«Lo scacco di Rossellini, per cocente che possa apparire, non è che relativo a confronto con Castellani. “Vanina Vanini” contiene momenti splendidi, sebbene l’opera non sia completamente riuscita. (…) Pare un film concepito e girato senza convinzione, senza impegno. Una sola cosa mi pare assodata: Sandra Milo non ha nulla dell’eroina di Stendhal, a differenza di Laurent Terzieff, che non ho mai scoperto così bello e così convincente». Passiamo al secondo testo, firmato da André Labarthe e intitolato “La boite a surprises”, “La scatola delle sorprese”. L’ incipit è fulminante: «La grande “coquetterie” dei nostri Festival sta nella loro serietà. Venezia, come Cannes, ha orrore del vuoto. Non si ride mai. Contano soltanto e soprattutto i misteri dolorosi!». Segue una sintetica disanima delle varie tendenze espresse… con un giudizio conclusivo: «È l’Italia che ancora una volta ci riserva la migliore delle sorprese. Non soltanto il cinema è qui a casa sua, ma i cineasti non smettono di interrogarsi sulle possibilità e le prospettive, non smettono di cercare e sperimentare. Malgrado tutto, malgrado la tendenza spettacolare del cinema italiano (che, cominciamo a credere, non sia affatto secondaria), è sul fronte del neorealismo che si cimentano ancora oggi i giovani registi italiani. Sì, il neorealismo è presente dappertutto: che sia fedele a se stesso (De Seta: “Banditi a Orgosolo”), che sopravviva (Castellani, De Sica), che si rinnovi (Olmi)».
 
''Banditi a Orgosolo''Questi, dunque, i fatti… che paiono disegnare una sbalorditiva quanto inattesa “alleanza” tra il film di Resnais, profeticamente sostenuto dai “Cahiers”, e “Banditi a Orgosolo”. Un’alleanza del tutto “inconscia”, che mette a confronto anche nell’Oggi due modelli di cinema che paiono gravitare a distanza siderale l’uno dall’altro.
Si potrebbe dire: da un lato dell’emisfero sta la volontà metafisica del film di Resnais, con il tempo della Memoria che si appropria del tempo presente, costringendolo a rovesciare i propri parametri; dall’altro lato, sta il naturalismo spietato, inesorabile e ineluttabile della Sardegna, anche qui con un “tempo” e una temporalità che camminano differentemente, approntando e seguendo leggi proprie.
Tuttavia, proprio tale “distanza” potrebbe risultare il motivo migliore per tenerli insieme, per mostrarli in una proiezione congiunta, nella stessa sera, uno di seguito all’altro… invito che mi sento di fare sia alla Cinèmateque francese che alla Cineteca italiana.
 
12 ottobre 2011
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