L'immagine come adattamento del testo
di Chiara Sulis
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Il primo processo è quello che mettiamo in atto nella lettura: quando leggiamo una poesia, un romanzo o un articolo di giornale, a seconda dell’efficacia del testo, immaginiamo ciò che stiamo leggendo, come se si svolgesse davanti ai nostri occhi.
L’immagine non può essere considerata copia della realtà, ma interpretazione, perché la visione è un processo inferenziale, dove ciò che vediamo è mediato dalla nostra cultura, esperienza e capacità percettiva; infatti tra coloro che producono le immagini e coloro che ne fruiscono si instaurano mediazioni culturali, ideologiche e storico-sociali. Possiamo definire l’immagine filmica come interpretazione della realtà anche perché «il testo filmico si rifà ai segni del profilmico per rielaborare una situazione, ma restituisce alla realtà questi segni caricati di nuovi sensi, “cinematografizzati”. Le strutture significanti di un film non sono tutte cinematografiche quando entrano, ma lo sono quando escono, nel senso che la “cinematografizzazione” altro non è che un processo di interpretazione e traduzione di discorsi extracinematografici attraverso il filtro di codici e discorsi cinematografici.»22 (Francesca De Ruggieri)
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Anche Calvino si interessa al processo attraverso il quale creiamo immagini e parla di “cinema mentale”, cioè di quella parte di lavoro che si attua nella mente del regista e precede le riprese vere e proprie; egli spiega che in realtà questo tipo di lavoro mentale, che ci coinvolge prima della stesura di qualsiasi testo e che ci porta a “vedere” ciò che scriveremo, è sempre esistito nella mente umana, ancora prima della nascita del cinema.
Nella nostra società la diffusione di immagini preconfezionate è fin troppo inflazionata e ci si chiede spesso come la nostra mente reagisca a una tale invasione di messaggi visivi; Calvino, nel suo saggio sulla visibilità, ha prospettato due possibili vie:
1. Riciclare le immagini usate in un nuovo contesto che ne cambi il significato: il post-modernism può essere considerato la tendenza a fare un uso ironico dell’immaginario dei mass-media, oppure a immettere il gusto del meraviglioso ereditato dalla tradizione letteraria in meccanismi narrativi che ne accentuino l’estraneazione.
2. Fare il vuoto per ripartire da zero. Samuel Beckett ha ottenuto i risultati più straordinari riducendo al minimo elementi visuali e linguaggio, come in un mondo dopo la fine del mondo.
Qualunque sarà il rapporto che stabiliremo nei confronti dell’immagine dobbiamo renderci conto che «tutte le “realtà” e le “fantasie” possono prendere forma solo attraverso la scrittura,[…] [in cui] esperienza e fantasia appaiono composte della stessa materia verbale; le visioni poliforme degli occhi e dell’anima si trovano contenute in righe uniformi di caratteri minuscoli o maiuscoli, di punti, di virgole, di parentesi; pagine di segni allineati fitti fitti come granelli di sabbia, rappresentano lo spettacolo variopinto del mondo, in una superficie sempre uguale e sempre diversa, come le dune spinte dal vento del deserto.» 24
22 Francesca De Ruggieri, Rappresentazione e simulazione nel cinema di Wim Wenders, Patrizia Calafato (a cura di), Metafora e immagine, Bari, Edizioni B.A.Graphis, 2000, p. 45
23 Wim Wenders, L’atto di vedere. The Act of Seeing, Milano, Ubulibri, 1997, p.43
24 Italo Calvino, Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Mondadori, 1998, p. 110
23 Wim Wenders, L’atto di vedere. The Act of Seeing, Milano, Ubulibri, 1997, p.43
24 Italo Calvino, Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Mondadori, 1998, p. 110