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"Sweet Rush" (Tatarak) di Andrej Wajda

di Sergio Scavio

''S(Polonia 2009; Warner Home video)
Andrej Wajda vuole girare un film partendo da un racconto dello scrittore Jaroslaw Iwaszkiewicz, ambientato ai margini del secondo grande conflitto mondiale, che descrive il pietoso silenzio di un marito verso sua moglie – non le rivelerà la malattia che lei ha – e l'attrazione di quest'ultima verso un affascinante ed incolto barcaiolo, innamorato a sua volta di una giovane e bella studentessa universitaria. Si interseca alla storia principale quella dell'attrice del film, Krystyna Janda, che ha perso il marito, amico e collaboratore di Wajda, nella fase precedente la produzione del film. 

Non ho mai creduto che i meccanismi, al cinema e nella vita, siano svalutanti ed impoverenti. Limare una formula, correggerla, trovare lo spazio dove questa fallisce è al contrario un percorso di fascino e, forse, di senso. Sweet Rush, mi preme subito dirlo, è un buon esempio di meccanica cinematografica; costruito, s'intende, col preciso intento di esserlo, senza esitazioni o variazioni. Le parti del film, difatti, iniziando  dalla sua scrittura, partecipano precise al progetto del regista come ruote nella cremagliera, dritte verso l'obbiettivo, peraltro comprensibile sin dal principio.

Un film, dicevo, che descrive le meccaniche di vita, intersecate alle meccaniche della messa in scena: storie che dalla realtà – la vera e violenta malattia del marito dell'attrice - si disciolgono, e replicano, nella finzione del film –il cancro nascosto alla protagonista da parte del marito. Come una fabbrica del dolore, la rappresentazione fa da contrappunto alla minuta e reale tragedia della protagonista, fatale ed uguale al film.

''Sweet Rush''Ma è dentro questa prevedibilità che Wajda costruisce la preziosa trama del suo film: dove la strada si interrompe, dove salta la ruota nella cremagliera, è lì che nasce il dialogo perennemente interrotto con la vita e il momento in cui questa verrà meno, in cui si cessa di vivere. Questo continuo dibattito tra cinema e realtà (e tra cinema e letteratura, considerando che il film è ispirato a due romanzi) è continuamente rotto dal monito della morte, dalla riflessione solitaria che questa, forzatamente, chiede ad ognuno di fare.
Quanto è difficile descriversi! La morte non concede dialogo se non con sé stessi: e le lunghe inquadrature del diario della malattia del marito, raccontato in prima persona dall'attrice Krystyna Janda, aride di pathos quanto zuppe di sincerità, sono una preziosa pietra angolare del film. Sola, lontana dall'obbiettivo, la Janda espone la penosa trafila della malattia del marito; sconfitta, in una stanza dimessa che ricorda un palco teatrale, si abbandona al racconto, trovando, crediamo tutti, parziale ristoro dal dolore. E' raccontare a sé stessi, ricordare con precisione che dà sollievo.

E' un film dedicato alla memoria, e questo per Wajda non è certo una novità, ma anche a chi con la memoria ha a che fare, e ne subisce la dolcezza ed amarezza; è dunque anche un film sulla vecchiaia, su chi la morte la sente parlar forte all'orecchio. Anziano lo è di sicuro il regista e lo sarà troppo presto la protagonista-attrice:  già consumata dal lutto nella realtà, nella finzione appare carnale e di una bellezza matura e già pronta alla sfioritura.  

''Sweet Rush''C'è nel film un brano dove il passaggio viene rivelato, per vero espresso sommessamente e con grazia.  La scoperta, anche per lo spettatore, avviene proprio in un confronto tra Marta, la protagonista, con il giovane barcaiolo, lui sensuale e dall'ignoranza provocante. Il ragazzo, discutendo di romanzi, le dice: “Non mi piacciono le descrizioni lunghe” lei ride e ribatte: “credi davvero basti il dialogo per descrivere ogni cosa? Che mi dici dei nostri paesaggi, del nostro fiume?”. Lui, sicuro della sua semplicità, lapidario:“cosa si può dire di un fiume? Un fiume è un fiume”. Ed è proprio questo iato che il film racconta:  quando il fiume non è più un fiume ma diventa un bagno di primavera di qualche anno fa, lo sfondo di un amore mancato, un annegamento oppure, e da qui il titolo originale del film, il lento piegarsi allo scorrere dell'acqua del tatarak - una pianta lacustre – che dal tanto farsi scorrere si piega e spezza, lasciando un odore acre di fango e terra, l'odore della morte. Quando il fiume non è più fiume ecco allora che non può che rimanere la sua descrizione; una descrizione che non può che terminare con la fine delle cose.

Quanto dolore in questo film, e quanta fiducia c'è da parte di Wajda nel cinema e nel suo potere taumaturgico; è per questo che, nonostante qualche concessione al formalismo, occorre recuperare questa piccola opera, dispersa nel mercato del DVD e mai, ma questa non è una novità, uscita nelle sale italiane.

18 dicembre 2013

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