Percorso

Cabiddu: "Il mio amico Furio"

Storia di un film mai nato, di un'amiciza diventata fede, di un ragazzo diventato uomo. L'incontro Scarpelli-Cabiddu ricostruito direttamente dalle parole del regista. Con una chicca davvero preziosa: un copione sardo scritto da Furio, l'unico della sua lunga filmografia. di Gianfranco Cabiddu

Fulvio ScarpelliAvere passato da un po’ i cinquanta fa riflettere, oltre che sul tempo che passa, sulle persone che incontri e che hanno avuto un’eco e un senso profondo nella tua vita. Questo è  un “appunto” che ho scritto un po’ di getto, sicuramente privato e impudico (e non è il mio modo di essere), ma una volta iniziato, tutto mi sgorgava naturale ripensando a Furio. Come per altri amici e maestri che se ne sono andati (per me troppo presto: penso a Sergio Atzeni, Eduardo, Benvenuti e molti altri), in casi simili non riesco a dire nulla in un'intervista, mi sembra sempre volgare e irrispettoso, mi viene meglio scrivere un appunto da tenere in privato nel mio computer. Ma questa volta ho “ceduto” alla sollecitazione perché mi fà piacere che si sappia che Furio Scarpelli ha lavorato ad un copione per un film sardo, credo l'unico della sua lunga filmografia.
Mi rendo conto oggi di quanta fortuna sfacciata mi sia stata riservata dal caso, per avere fatto in tempo a conoscere e vivere una stagione semplice dove il cinema era cosa naturale e sgorgava semplice e fluido (non incattivito e di “potere” come è oggi) direttamente dal rapporto tra le persone che lo facevano e il pubblico. Senza barriere generazionali o di censo.
Era più  o meno l’inizio del ‘90 e, dopo “Disamistade” che aveva avuto un riscontro che andava ben oltre il cinema regionale, avevo provato a portare sullo schermo "Paese d’Ombre" di Dessì, senza fortuna per un problema di diritti. Ero in Canada con il film, al festival di Montreal, e Paola Corvino, storica venditrice estera della Titanus, che vendeva anche “Disamistade”, mi telefonò da Los Angeles e avanzò una proposta di film da parte di un produttore belga che cercava un regista e una coproduzione italiana: lei insieme a Giuseppe Tornatore, aveva pensato a me. Era la storia di un viaggio dal Belgio a Roma per adempiere a un voto.
 
''Disamistade''Ritornato a Roma ho letto subito il copione, ma rimasi un po’ deluso: risultava “costruito”, meccanico, insomma andava tutto rivisto, gli andava costruita un’anima, e se dovevo farlo io dovevo cucirmelo addosso, doveva in qualche modo suonare dentro di me: se il protagonista fosse stato un emigrato sardo tutto cambiava. Trattandosi di una commedia favolistica, con l’audacia neofita della gioventù, ho chiesto ai produttori di poter avere uno sceneggiatore esperto: Furio Scarpelli. “Se riesci a convincerlo…” fu la sfida dei produttori.
Sono sempre stato refrattario, per natura e per istinto, ad una concezione squisitamente autoriale del cinema: per me il cinema fin da subito è stato l’arte dell’incontro, un lavorare insieme, così simile al fare musica insieme con altre persone. Su questo mi sono subito inteso con Scarpelli che era profondamente diffidente verso una concezione del cinema autoreferenziale, che si nutre soltanto di sé.
Ricordo che al nostro primo incontro Furio aveva uno sguardo penetrante e severo dietro degli occhialetti con la montatura cerchiata di nero, grossa, alla Graucho Marx, ma non metteva soggezione, lo sguardo attento era dolce, e ti metteva subito a tuo agio. Si capiva subito che Scarpelli amava ascoltare, semplicemente, con curiosità umana prima che professionale.
Gli spiegai che in quella storia io vedevo la possibilità di raccontare un ragazzo sardo artefice del suo destino, sempre: un minatore diventato vecchio, che conserva in sé un’energia e un sogno, un’ideale, di ragazzo. Ricordo che sorrise sornione, però sembrava poco interessato al copione in sè. Io cercavo di imbellettare la mia idea di film, di regia, ma lui continuava a farmi un sacco di domande, anche e soprattutto personali; ormai mi sentivo perduto, ma lui improvvisamente se ne uscì con “sarà il mio primo film in Sardegna”: insomma era un sì.
 
Paolo VirzìLa condizione posta da Scarpelli era che collaborassero alla sceneggiatura anche i “suoi ragazzi”: Umberto Contarello e Paolo Virzì, che ho conosciuto in quella occasione. Iniziammo le riunioni ma dopo poche settimane Paolo Virzi se ne è andato per preparare il suo primo film da regista, ed è entrato con noi Francesco Bruni.
Era una cosa molto “greca”, un gruppo di “ragazzi” che andava a visitare il “maestro” per il piacere di sentirlo divagare, scavare e stimolare le corde profonde di ciascuno. Ricordo che per i primi due/tre mesi, con 3 incontri settimanali con Furio e 2 tra di noi, non abbiamo scritto pressochè un bel nulla. Oggi sarebbe impensabile, e ricordo che all’inizio io, che non avevo mai lavorato con degli sceneggiatori veri, mi sentivo perduto e quasi estraneo, ed ero molto impaziente. Poi mi sono lasciato andare e abbandonato…
La storia era grossomodo questa: un bambino di sei anni, nipote di un emigrato italiano ex minatore in Belgio, cade da un albero della cuccagna, durante una festa: è in bilico tra la vita e la morte. Il padre del bambino fa un voto che se il figlio si salva lo porterà in pellegrinaggio in Italia. Il bambino si salva ma il padre, per una serie di ragioni “pratiche”, si dimentica del voto fatto. Il nonno, pur non credente, ma per una “naturale” questione d'onore, quasi rapendo il nipote, s’assume la responsabilità del voto e parte in biciclettaalla alla volta dell'Italia, inseguiti dai genitori del bambino per mezza Europa. Questo l'incipit e il cuore del film "La Bicicletta", un viaggio d'avventura, di scoperta e di iniziazione, di nonno e nipote fino alla meta finale, la miniera in Sardegna da dove il nonno è partito quaranta anni prima facendo una “promessa”, alla sua donna e alla sua terra.
Le domande che pose da subito Furio a noi giovani “discepoli” testimoniano il tono, prima ancora che dello sceneggiatore, dell’uomo grande che era, della sua curiosità e voglia fanciulla di capire il mondo: in un'Europa attraversata da massicce ondate migratorie, diventava importante una duplice riflessione: che rapporto hanno con noi questi uomini che lasciano i loro paesi in cerca di una possibilità di sopravvivenza? Sono solo una minaccia per la nostra, magari faticosamente conquistata, sicurezza? O non sono piuttosto, questi immigrati di oggi, i "noi stessi" di ieri? E noi, oggi, ci ricordiamo ancora di ciò che siamo stati? Dobbiamo ripensare alla nostra cultura passata, alla nostra esperienza passata? O dobbiamo piuttosto dimenticarla per muovere verso una omologazione da villaggio globale, verso una cultura sempre più derivata dai mass-media e sempre più povera di esperienza, di confronti, per sentirci in questo uguali e “moderni”?
 
Eduardo De FilippoFurio con noi “sceneggiatori” aveva talvolta modi apparentemente bruschi e spigolosi, soprattutto quando si accorgeva che per fretta o per pigrizia cercavamo soluzioni facili, allora ci esortava a mettere nuovamente tutto in gioco, metteva in crisi ogni certezza, e bisognava buttare tutte le scene scritte e ricominciare dacapo. Un “modo” (che a chiamarlo “metodo” Furio ne riderebbe) che mi ricordavano il rigore di andare sempre al “nocciolo” (mai facile) di un altro grande uomo con cui ho avuto la fortuna di lavorare da ragazzo, per tanti anni, Eduardo De Filippo. Uomini fatti con un’altra stoffa, dove era palpabile la nostalgia e la delusione per un'Italia che non era quella sana, giusta, onesta sognata durante e dopo la guerra; uomini che sono stati capaci di raccontare pagine drammatiche della nostra storia, stemperandole sempre con l'umorismo e la leggerezza, con pietas, poesia e verità. Uomini che mi hanno segnato a fuoco, portandomi a spendere tutta la vita per imparare seriamente un mestiere, con l’umiltà di un artigiano; un sapere che oggi, nel mondo dell’apparire e del vendere, vale spesso molto poco.
Così  Furio ci spingeva ad interrogarci e a capire oltre l’apparenza a non cercare le strade facili della nostalgia e dell’imitazione, ma ci spingeva bruscamente alla continua ricerca e all’originalità. Ma non fine a se stessa, fatta a tavolino per sorprendere i critici, ma la ricerca di un senso con un linguaggio popolare e semplice, straordinario come la vita. Così con lui si “perdeva un sacco di tempo” perché di questa dote maieutica era generosissimo e “sprecone” soprattutto con i giovani: una delle persone più colte che io abbia mai incontrato, che però detestava ogni ampollosità e ogni retorica, e i fulmini di senso profondo arrivavano sempre conditi di una grazia e una gentile ma irresistibile ironia.
 
Age (Agenore Incrocci)Così il copione finale de “la Bicicletta” pur non essendo certo un film di argomento sociale, ma piuttosto  una commedia d'avventura, in qualche modo una favola lieve, conteneva sottotraccia tutti questi interrogativi, allora anticipatori, e pienamente attuali ancora oggi:
a) il tema dell'emigrazione visto attraverso tre generazioni, nonno, figlio e nipote, in una chiave non sociologica ma naturale, semplice e culturale.
b) il tema del viaggio in bicicletta attraverso l'Europa (dal Belgio, attraverso la Francia e la Svizzera, all'Italia) per strade secondarie: che diventa la metafora di un' Europa colta e raccontata "dal basso", più vicina, nella durezza e nella solidarietà umana della provincia, dell'Europa ufficiale.
c) il rapporto del protagonista con la tradizione culturale del suo paese d'origine, la Sardegna, il senso dell'onore e dei valori, per ironia della storia, “preservati” integri lontano da casa, e la necessità che questi valori vengano trasmessi nella loro essenza alle generazioni future.
Temi apparentemente più adatti ad un’indagine vasta, che normalmente non stanno “dentro” la drammaturgia di un film leggero: temi adatti ad uno scrittore. E Furio era principalmente uno scrittore o ancora meglio un narratore che si esprimeva con il cinema. Ricordo bene quando anni dopo Scarpelli si impose agli “sceneggiatori puri” e a noi della giuria del Premio Solinas per creare una sezione del premio dedicata ai soggetti, che lui chiamava racconti cinematografici. A lui interessavano prima di tutto le storie e le persone. E le discussioni appassionate sulla letteratura, sulla politica e la storia (a mia memoria non ho mai sentito parlare di cinema), spesso fatte alla trattoria  da “Otello” il mercoledì sera. Era quella trattoria una tana misteriosa (che a noi sembrava un luogo mitologico) a pochi passi dalla casa di Furio, dove si riunivano a cena e poi si trattenevano per una partita a carte e a discutere con semplicità, quegli uomini meravigliosi che hanno fatto il cinema italiano: Benvenuti, Pirro, Scola, Arlorio, De Bernardi, Magni, Monicelli, ecc.
 
Mario MonicelliSi riunivano, quasi per caso e per abitudine, in informale cenacolo, da anni intorno a un tavolo, per il piacere del confronto su tutti gli interessi che li animavano, e le curiosità, le passioni e la politica: questa è stata la forza di quel cinema italiano che ha parlato al mondo. Ed era un onore per noi esservi stati ammessi da “auditori” partecipi. Tutti loro e Furio Scarpelli in particolare davano la massima importanza a tutto il resto che non è cinema, a tutto ciò che sta intorno: di questo è pieno il suo cinema, tutto “carburante utile”  che dà vita e vitalità al cinema stesso.
Forse io non posso dire di averlo conosciuto bene intimamente, ma stare, con entusiasmo e passione, a “bottega” da Furio Scarpelli per quasi un anno ha significato per me imparare che il cinema è il punto di arrivo, che è più importante l’esperienza umana, l’ascolto, la lettura e la conversazione, e l’attenzione alla società intorno. Questo non serve nè basta certo a fare un grande regista, o un autore di successo (Furio sarebbe inorridito), ma aiuta a “fare” un uomo, forse un pò migliore. E tutti lo dovrebbero conoscere Furio Scarpelli. Non è difficile: basta rivedere i suoi film, più di cento e tanti scritti in copia con Age, che hanno espresso quello spirito, quella modalità di racconto e interpretazione, quella Commedia all’italiana che è molto più di un “genere” è “presa diretta” sulla vita e sulla società italiana nel tempo. La maniera migliore per onorare Furio Scarpelli è quella di rivedere i film che ha scritto, per tenere viva la memoria e farlo conoscere ai ragazzi di oggi, e ringraziarlo sempre per quello che ci ha lasciato.

Gianfranco Cabiddu
Post scriptum
Poi il film “La Bicicletta” non si è più fatto. Siamo arrivati a prepararlo in pre-produzione, fare i sopralluoghi e le prove costumi con Philippe Noiret, che era il protagonista, a Tolone, ma per i casi frequenti di cui è pieno il cinema, italiano e non, qualcosa è andato storto nei finanziamenti e tra i soci della produzione, che era una cordata piuttosto complicata e litigiosa tra Italia Francia e Belgio. Poi ci ha lasciato anche Philippe e ho infine desistito. Come dice Antonioni un film non impresso su pellicola non esiste; così di questo film rimane l’esperienza di vita che conservo nel cuore e un copione che conservo a casa, firmato da Scarpelli, Contarello, Bruni e Cabiddu. Francesco e Umberto sono oggi tra i migliori sceneggiatori italiani e Virzì, nella scrittura e nella regia, è il degno erede di quella grande commedia all’italiana. Ironia della sorte: lo scorso anno i diritti de “La Bicicletta” sono stati acquistati da un produttore italo-francese: chissà “domani è un altro giorno”.  
L’ultima volta che l’ho visto era alcuni mesi fa, in autunno, vicino a casa sua, gli ho parlato del mio prossimo progetto che è ambientato in un isola-carcere, e come al solito abbiamo utilissimamente “perso tempo”: io cercavo in lui i ricordi delle compagnie d’avanspettacolo e di teatrini poveri, di provincia, che lui conosceva bene, fin dai tempi di Totò, e lui divagava parlandomi dettagliattamente di Cechov e del suo libro-reportage sull’isola di Sachalin. Un regalo e uno stimolo ulteriore ad andare a cercare ancora, ancora e ancora…
 
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