Percorso

Quelle raffinate dicotomie di Pani

Vive e lavora a Barcellona ma il suo cuore batte il ritmo arcaico dell'Isola. Intervista a Marco Antonio Pani, uno di quei registi di cui sentiremo sempre più parlare. di Ignazio Sanna 

 Marco Antonio Pani non è soltanto una persona gentile e disponibile. E’ anche uno dei migliori tra i registi sardi emergenti. Hanno avuto modo di rendersene conto coloro che sono intervenuti all’incontro con l’autore organizzato a Cagliari dall’associazione culturale Don Chisciotte lo scorso venerdì 1 giugno, quando sono stati proiettati tre dei suoi cortometraggi: Chinotto, Las puertas del mundo nino e il più recente Panas. Ne abbiamo approfittato per rivolgergli qualche domanda.

La morte sembra essere un "personaggio" ricorrente nei suoi cortometraggi. Si tratta di una scelta precisa?  E' azzardato dire che nel suo progetto autoriale l'elemento Thanatos abbia un ruolo centrale?
Non mi sento di dire che c'è un progetto vero e proprio dietro la scelta di raccontare la morte nei miei lavori. E d'altronde credo che più che la morte siano le dicotomie vita/morte, sogno/veglia, pazzia/salute mentale le vere protagoniste di questi tre corti. Sono concetti che per me hanno un valore di coesistenza molto forte: non sono separati, non sono conseguenti, sono contemporanei e coesistenti e permeano l'esistenza di ognuno, in un modo più o meno cosciente. Ecco, è questo viaggiare in bilico fra facce così opposte della realtà emotiva, forse, il minimo comun denominatore che muove il mio occhio e la mia (con tutta modestia) sensibilità.

Il suo ultimo lavoro, Panas, in sardo logudorese, può essere considerato come un trait d'union fra il materiale storico-documentaristico realizzato in Sardegna e quello di fiction? E comunque continuerà a lavorare in questa direzione?
Vede, tra un mio piccolo lavoro e l'altro trascorre (ahimè) di norma un tempo abbastanza lungo da sembrarmi una vera e propria "era" della mia vita. Per questo non so cosa farò in futuro anche se esiste un progetto di approfondimento delle tematiche legate alla magia e alla religiosità ancestrale della nostra isola.

Nonostante viva e lavori a Barcellona da qualche anno, ha avuto modo di vedere le opere di qualche altro giovane autore sardo?
Sì, ho avuto occasione di conoscere Silvia Ciccu al festival di Asuni, due anni fa, che mi ha regalato una bella emozione con la proiezione dei suoi corti d'animazione. Molto poetici e visionari, e di realizzazione finissima.

Come vede la situazione in Sardegna per quanto riguarda la possibilità per i giovani autori di formarsi, magari attraverso appositi corsi e scuole di cinematografia?
In Sardegna siamo un milione e mezzo di abitanti, e la metà di noi negli ultimi anni vuole fare cinema. Quindi una scuola ci starebbe anche bene. Credo però che (parlando di sceneggiatori, registi, direttori della fotografia) i soldi andrebbero spesi per mandare chi se lo merita nelle grandi scuole "di fuori" anzichè per metterne su versioni ridotte qui, a meno che non si punti alla realizzazione di scuole internazionali. Forse ci starebbe bene una scuola che formi le maestranze. E magari, fondi permettendo, sarebbe opportuno aiutare finanziariamente la produzione dei lavori dei giovani autori sardi e mettere in condizioni di lavorare le produzioni locali, nazionali o straniere, vincolandole almeno parzialmente all'impiego di maestranze sarde. Questo succede anche negli altri paesi. La mia esperienza spagnola mi insegna che se, per esempio, la Catalogna produce o finanzia un film di coproduzione, fra le regole imprescindibili vige quella che almeno la metà delle maestranze deve essere catalana, che una quota di produzione deve essere catalana, che almeno la metà dei ruoli principali dell'equipe tecnica deve essere catalana, e che almeno il regista o lo sceneggiatore, o il direttore della fotografia, debbono esserlo. Ecco, io sono d'accordo con questa scelta.
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