"Gorbaciof" di Stefano Incerti
Il consiglio di Elisabetta Randaccio
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Siamo a Napoli, ma la città più stereotipata nell’immaginario collettivo, non ha elementi di effettiva riconoscibilità. Le strade convulsamente attraversate da migliaia di auto, lo squallore di appartamenti anonimi che danno su vie grigie, la contaminazione etnica nella folla e nei locali, le sudice sale per scommettitori, gli anonimi centri commerciali, unico luogo di “sogno”, insieme a un zoo altrettanto onirico, potrebbero essere quelle di Los Angeles (come l’ha definita uno scrittore “una costante periferia”) o di qualsiasi altra metropoli del mondo, dove chiunque trascina i propri drammi e le proprie ossessioni. Anche Marino Pacileo, detto “Gorbaciof” per l’evidente voglia viola sulla fronte, non è una macchietta partenopea, semmai più che a Charlot, come molti critici hanno voluto accomunarlo, ci ricorda il “topo” Dustin Hoffman di “Un uomo da marciapiede”.
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Lila lavora nel ristorante cinese del padre, anch’esso giocatore incallito disposto persino a venderla per proseguire la sua malata fissazione, e non capisce una parola di italiano. Pacileo la conquista, perché la protegge dagli insulti dei bulli e dalle attenzioni di chi la vorrebbe “puttana”.
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Incerti non è un moralista, si sofferma sulle sensazioni più che sui fatti, usa la macchina a mano per seguire il suo “eroe”, costringendo lo spettatore, soprattutto nella prima parte, ad identificarsi con la camera.
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Servillo è una “sceneggiatura” vivente: come ogni grande interprete si cuce addosso, con la collaborazione del regista, il personaggio, lo pervade di stoltezza e di intuizione, di solitudine, di melanconia e di un buon strato di ironia.
Ovviamente la sua performance da sola, come si diceva un tempo, vale il prezzo del biglietto.
20 ottobre 2010