Percorso

Lirismo, cinema, architettura: pensieri sull’eterno connubio tra arte e civiltà.

di Enrico P. De Plano
 
''Berlin'', locandinaE' sfida e lusso incommensurabile assumersi l'arbitrio di "commentare" brevissimamente un'opera cinematografica particolarissima quale un corto astratto.  In quanto capolavoro e pietra miliare del cinema delle avanguardie storiche, fiumi d’inchiostro sono stati certamente versati su essa, e non saranno i pochi bits di un mio breve scritto ad aggiungere nulla di decisivo.
Provenendo da una formazione che non ha più la sua matrice solo nella storia dell'arte ma anche nell'architettura, avrei dovuto sentirmi sedotto dal lungometraggio di Ruttmann, e lo sono. Ma inizio attraverso la stesura di appunti mnemonici su pure sensazioni.

Mi viene in mente il gruppo Abstraction Creation, o l’uso cezanniano di riferirsi a quella che definiva “ma petite sensation”. Ecco io ho avuto una vertigine di sensazioni che mi si affastellavano, ero rapito in un’estasi visiva nel turbine affatto barocco ma oltre misura commovente a tratti in modo sub-limines della pellicola “Lichtspiel Opus 1” di Ruttmann.

 
''Lichtspiel Opus 1''Amo la musica, ho cercato di imparare piano e violino ed amando anche disegnare, dipingere e fotografare, mi è impossibile non provare qualcosa a livello viscerale, nella sede più arcaica delle nostre emozioni, il paleoencefalo, per elaborare poi quelle sensazioni a livello cosciente con la parte razionale della neocorteccia solo cessata l’immersione e svanita la bolla diegetica e l’incanto del buio della sala.

L’inizio, incipit forte del film astratto come una serie di macchie non figurative alla Blaue Reiter, diventa immediatamente lirico e al tempo stesso, nella sua ricerca, dichiaratamente sperimentale. Nel ’21 del XX secolo quelle virgole pennellate sui fotogrammi che si alternano alle forme di luce sferiche, sono certo paragonabili a ricerche di arte visuale successive come quelle presenti in Stanley Kubrick, penso all’uso del colore in “2001 a space odissey”, o ad effetti speciali usati nelle sigle dei primi film di “James Bond”: B movies di culto che peraltro usavano tecniche di op art ma ancora in modi che ci ricordano queste particolari primigenie sfere colorate di Ruttmann le quali nel suo film appaiono, si dilatano e scompaiono in un big bang minimalista. Il fatto che il suo retaggio sia restato fino a effetti speciali in pellicole degli anni ’60 (un film sull’ MK Ultra e la CIA, con un giovanissimo Michael Cain) fa senza dubbio una certa impressione.

 
Le immagini geometriche di RuttmannFin troppo facile sarebbe pensare cosa avrebbe fatto un artista delle avanguardie del primo ventennio del secolo scorso con le tecniche grafiche dell’ICT cinematografica. Forse sarebbe stato semplicemente un buon grafico, non necessariamente un pioniere. Per essere un pioniere occorre un campo vergine.

Le forme pennellate campite in un pattern nero di seppia, come idee platoniche in un universo vuoto, assumendo la forma di foglie o gocce si reduplicano, mutano colore, diventano infine fisse in una forma stabile e più definita a fiammella che nella tonalità azzurra ricorda esattamente certe stilizzazioni del metano proposte da un grande grafico svizzero negli anni ’80: Folon. Progressivamente la regia non adopera più le primitive riflessioni intorno all’asse (allora d’avanguardia) come effetti di straniamento asimmetrico. La musica aumenta la concordanza con il variare delle immagini, la cui complessità e capacità metamorfica si dilatano esplosivamente.
Forme di cellule occhieggianti rosse entrano in scena e vengono attaccate da una qual sorta di protoplasmatici pseudopodi azzurri cangianti, i quali (pur nella erraticità di ogni attribuzione e proiezione di idee figurative ad opere volutamente astratte) bizzarramente non possono che evocare, a chi conosca tali creature, l’attacco dal basso degli squali, di cui queste macchie cangianti oblunghe che si muovono sinuosamente, affusolate attaccando, hanno la forma, ed alle quali manca solo una mezzaluna a simboleggiare una bocca dentata.
Il colore in questa fase del film muta continuamente. Compaiono triangoli netti che si pongono contro i cerchi, quasi eco e citazione di El Lissitzky, ed infine domina il campo una vera guerra che si scatena tra triangoli di opposti colori: azzurri e rossi.

''Berlin''Non occorre ricordare che nell’opera astratta di Lissitzky il triangolo rosso rappresentava il bolscevismo trionfante contro i “bianchi” della reazione cosacco-zarista. Era allora storia attuale, e in Germania esisteva un forte movimento operaio, diviso tra socialismo spartachista e comunismo. Il rosso era come è arcinoto il simbolo del sangue degli oppressi.
L’azzurro, come dovrebbe sapere chiunque abbia familiarità con la comunicazione e la semiotica, ma anche nozioni di etologia, richiama il cielo e rasserena, è considerato nobile dall’araldica medievale in quanto sede divina, e compare storicamente come banda di seta in tutte le decorazioni nobiliari dell’ ancien regime compreso quello bismarkiano ammodernato degli junkers prussiani.
La Germania era allora scissa e tutti i valori attorno a cui aveva fatto perno il Primo Reich gugliemino erano crollati, ma erano rimpianti da molti. Si pensava che la Kultur tedesca fosse superiore, ed il crollo bellico era spiegato come pugnalata alla schiena da parte dei traditori di novembre e degli ebrei in accordo con i Rotschild inglesi e francesi. Ciò permetteva di far sopravvivere l’idea di una missione storica della Germania e della necessità di un avvento di una politica in grado di contrastare e arginare il comunismo che avrebbe altrimenti distrutto la Nazione. Ruttman per la piega che prese la sua vita sembra pensarla così.

''Berlin''Sappiamo che a contrastare i triangoli rossi nella realtà furono cunei di ferro reali, camice brune e poi una marea nera. Ruttmann rimase anche dopo il ’33, e dopo le leggi razziali, e dopo l’ingresso in guerra. Filmò e documentò entrambi i fronti e morì in quello orientale nel 1941.
Si risparmiò almeno di vedere la distruzione della capitale che nel film “Berlin: Die Sinfonie der Grosstadt” immortalò in modo indimenticabile, e di cui rimasero solo macerie.

La visione di questo lungometraggio dopo il corto precedente, anzi, è per un appassionato di architettura e genius loci come me, occasione di sentimenti di orrore e rimpianto, perché è come se avessimo perso Parigi o Londra.
Le immagini aeree sono un documento eccezionale e moltissime inquadrature di manufatti architettonici di pregio del centro, come pure certe periferie non sono difformi da Old Bond Street o da Les Halles (anch’esse perse, in altro modo, facendo posto al centre Pompidou), e i parchi ricordano quelli di Londra o il Bois de Boulogne.
''Berlin''Per non dire delle meravigliose stazioni, o di luoghi simili a Covent Garden, distrutto dalla Luftwaffe nazista nella seconda guerra mondiale. Ma sono soprattutto i palazzi art decò, o stile eclettico, o neogotici, i monumenti barocchi etc a lasciare un rimpianto nella cementificazione edilizia anonima e atopica della Berlino post guerra.
Inoltre, per decenni solo nella vita privata si aveva un barlume di vivacità, mentre finalmente Berlino ha ritrovato il sapore di essere una vera metropoli ed ha riscoperto una nuova  vitalità ed effervescenza culturale e mondana paragonabili a quelle del film di Ruttmann del ’21 solo dopo la riunificazione della Germania e il ritrovato ruolo di capitale della nazione tedesca.
Oggi non casualmente molti degli architetti che hanno ricostruito sulle macerie di Potsdammerplatz hanno utilizzato forme e materiali che, seppure in modo aggiornato tecnologicamente, richiamano Mendelsohn, Gropius e in genere  le avanguardie storiche.

Walter RuttmannTornando a Ruttmann, egli si dimostra, oltre che capace di simbolismi relativi al suo tempo, un maestro nell’arte astratta più pura e poetica, sia nel senso lirico del termine, sia nel senso etimologico, dal greco “poièin” = fare: i petali pennellati sulla pellicola ricordano (come non potrebbero?) analoghi guizzi prodotti da pennelli abilissimi di maestri del calligramma orientale, con inchiostri su carta di gelso, anche questa traslucida. E nel pensare questo, fa una certa impressione assistere alla fine del corto con una figura circolare rossa circondata da nero, un sol levante, un richiamo inconscio all’Oriente e un’ anticipazione dell’alba dei tempi che si apprestavano in una Germania in cui la fragile Repubblica di Weimar aveva le ore contate…
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